Buongiorno! Sono le 11:11 dell’ultimo mercoledì del mese (nella fattispecie di aprile 2023), e questa è Barocco e i suoi fratelli, una newsletter con la parrucca boccolosa e incipriata, e i piedi a papera.
(se avete perso il primo numero, per gli amici “numero zero”, di questa newsletter, potete trovarlo qui. Se ancora non siete iscritti, potete farlo cliccando sull’apposito pulsante, così ogni ultimo mercoledì del mese troverete Barocco e i suoi fratelli direttamente nella vostra casella email.)
…e cinque, sei, sette, e otto!
Avete presente quando da piccol* volevate fare judo e invece mamma vi ha iscritto a danza classica, e da allora camminate con i piedi a papera?
La colpa di tutto ciò è di Louis XIV, le Roi Soleil — anzi, per la precisione la colpa è di Pierre Beauchamp, suo insegnante di danza, il quale gli diede lezioni giornalmente per vent’anni, dal 1650 al 1670, e soprattutto fu l’inventore delle famigerate cinque posizioni fondamentali della danza classica (quelle che fanno venire i piedi a papera, per l’appunto), e della codifica grafica delle notazioni coreografiche. Un suo allievo, Raoul-Auger Feuillet, le raccoglierà e pubblicherà poi nel 1700 sotto forma di trattato, Chorégraphie ou Art de décrire la danse par caractères, figures et signes démonstratifs (Coreografia o Arte di descrivere la danza attraverso caratteri, figure e segni dimostrativi), in cui è evidente fin dal titolo la volontà di Beauchamp di far “dialogare” la notazione coreografica con la trascrizione dello spartito musicale.
Nel 1653 l’allora quattordicenne re di Francia (guidata in realtà ancora dalla co-reggenza di sua madre, Anna d’Austria, con il Cardinale Mazzarino) fu il protagonista di un balletto composto appositamente per lui da Giovanni Battista Lulli, e ovviamente con la coreografia di Beauchamp, intitolato Ballet de la Nuit, nel quale interpretava il sole che sorge. A quanto pare, l’esibizione fu ripetuta per sei volte di seguito, giusto per far capire bene ai sudditi che lui, proprio lui, mica un altro, era “le Roi Soleil”, quello che avrebbe portato la luce e la grandezza alla Francia — potete farvi un’idea di come andò la faccenda guardando questo spezzone tratto da Le Roi danse, bellissimo film del 2000 introvabile (se non a prezzi esorbitanti) di Gérard Corbiau, in cui a interpretare Louis XIV ballerino adolescente è Emil Tarding, che non mi risulta abbia fatto altri film dopo questo, peccato.
Pierre Beauchamp fu il primo direttore di quell'Académie royale de danse, fondata proprio da Louis XIV nel 1661, che poi dal 1780 prese il nome di Opéra de Paris. Il suo allievo reale non usava le scarpe da punta da ballerina come le conosciamo noi, quelle con la mascherina rigida e la punta piatta, e neanche quelle da mezza-punta come Roberto Bolle, ma indossava comunque delle scarpe apposite per la danza, come quella nella prossima immagine, che effettivamente è proprio una delle sobrissime calzature per il balletto appartenute e utilizzate dal Re Sole:
Una cosa è rimasta uguale nei secoli, comunque: il fatto che le scarpe da balletto siano identiche tra loro, nel senso che non si distingue la sinistra dalla destra se non dopo averle utilizzate per un po’ (perché con l’uso, come tutte le scarpe, prendono la forma del piede). Questo, nel Seicento, valeva però per tutte le calzature, non solo quelle da danza: la scarpa destra e la sinistra erano identiche. Provate a immaginare la sensazione di disagio che provereste se le vostre scarpe non avessero non solo una forma esterna, ma soprattutto una soletta interna che distingue il piede destro dal sinistro, sostenendoli entrambi nei punti giusti… a me fanno male i piedi solo pensandoci!
Era de maggio e te cadéano ‘nzino, a schiòcche a schiòcche, li cceràse rosse…
Cosa c’entra col barocco questa canzone in lingua napoletana, basata sui versi di una poesia scritta da Salvatore Di Giacomo nel 1885, e musicata da Mario Pasquale Costa?
C’entra perché Era di maggio è il titolo della festa di primavera che si terrà il 6 e 7 maggio 2023 all’Orto Botanico di Roma, quello splendido giardino proprio sotto al Fontanone del Gianicolo, il cui terreno fu donato all'Università da papa Alessandro VII Chigi nel 1660.
Un orto botanico a Roma in realtà esisteva già, ed era il Simpliciarius Pontificius Vaticanus, cioè il “giardino dei semplici” (non la band!) sul colle Vaticano, istituito già da Nicolò III nel XIII secolo. Quando però durante il pontificato di Paolo V Borghese si decise di trasferire la residenza dei papi al Quirinale, il giardino vaticano fu abbandonato, finché papa Alessandro VII non decise appunto di ripristinarlo ai piedi del Gianicolo, affidandolo all’università romana:
La sistemazione attuale risale alla fine dell’Ottocento, ma in piena età barocca, dal 1659 al 1689, il giardino e il palazzo attiguo (all’epoca denominato palazzo Riario alla Lungara, oggi palazzo Corsini) furono sede di una vivacissima e peculiare corte…
Durante la festa di primavera all’Orto Botanico si potrà anche partecipare a una visita guidata speciale, intitolata “Un giorno da Cristina di Svezia: il giardino e il palazzo della regina di Roma”.
Ah, non sapevate che Roma fosse stata la residenza di una regina svedese?
«...il buon padre voleva un maschietto, ma ahimè sei nata tu,
nella culla ti ha messo un fioretto, lady dal fiocco blu…»
Ebbene sì, la “vivacissima e peculiare corte” formatasi alla Lungara nella seconda metà del Seicento era proprio quella di Cristina di Svezia, ex “regina bambina” (perché suo padre, Gustavo II Adolfo di Svezia, morì nella battaglia di Lützen nel 1632, quando Cristina aveva solo sei anni), che nel 1654, in seguito alla sua conversione al cattolicesimo, aveva abdicato in favore di suo cugino Carlo Gustavo di Zweibrücken-Kleeburg (per gli amici Carlo X di Svezia), e aveva quindi lasciato la Svezia diretta a sud, soggiornando brevemente nel Paesi Bassi, in Belgio, e poi proseguendo verso l’Italia per infine stabilirsi a Roma.
Cristina di Svezia aveva ricevuto un’educazione tipicamente maschile, proprio come Lady Oscar, ma anziché esercitarsi nel fioretto con André, Cristina si esercitava proprio col cugino Carlo Gustavo, suo successore al trono.
Sebbene si circondasse di intellettuali, aprendo la sua dimora ai circoli culturali, favorendo le arti, e facendo guadagnare a Stoccolma il titolo di “Atene del Nord”, la Svezia si trovava in realtà sull’orlo della bancarotta: la guerra dei trent’anni, interrotta finalmente solo nel 1648 con la pace di Westfalia, aveva rafforzato l’aristocrazia, che imponeva tasse sempre più esose al popolo e ai contadini, che prima erano stati abituati a regimi fiscali più sostenibili. Quando Cristina abdicò, anche le sue finanze personali non è che fossero messe proprio benissimo… Ma lei, salutando gli svedesi facendo il gesto dell’ombrello lasciando tutto nelle mani di Carlo Gustavo, si convertì dal luteranesimo al cattolicesimo, e decise di andare in esilio, depistando tutti con la notizia che si sarebbe recata in Danimarca.
Arrivata invece a Roma nel 1655, giusto in tempo per l’elezione a papa di Alessandro VII Chigi, ebbe nientemeno che Gian Lorenzo Bernini come arredatore personale (più o meno): fu lui infatti che progettò la sontuosa lettiga con cui la ex sovrana entrò in Vaticano, restaurò la Porta del Popolo perché ricordasse l’ingresso a Roma dell’ex sovrana svedese, e progettò alcuni elementi di arredo per la sua dimora romana, tra i quali questo specchio, purtroppo andato perduto, ma del quale rimangono diversi disegni preparatori:
Il suo arrivo in città fu accolto da una sobrissima “giostra dei caroselli” a palazzo Barberini durante il Carnevale del 1656, immortalata da un imponente dipinto a quattro mani, opera di Filippo Gagliardi e Filippo Lauri, tuttora conservato al Museo di Roma a Palazzo Braschi:
Sempre nel 1656, Cristina di Svezia decise di aprire un’accademia, la cosiddetta Accademia Reale, a palazzo Farnese, dove si era insediata al suo arrivo a Roma, nel quale ogni venerdì accoglieva gli ospiti nei suoi salotti, sempre luogo di discussioni intellettuali, tra i quali figurava anche il cardinale Decio Azzolino, capo del cosiddetto “Squadrone Volante”, che non era una teppa di aviatori barocchi, ma una specie di club di cardinali non condizionati politicamente (però riuscirono a manovrare ben più di un conclave, i furbacchioni…). Cristina e il cardinale erano talmente best friends forever che a un certo punto dovette intervenire il papa per separarli, perché lo Stato Pontificio è piccolo e la gente mormora e di Donna Olimpia Maidalchini ce n’era stata già una, basta così, grazie.
Nel 1657, mentre si trovava in Francia (più che altro per sfuggire alla peste che era arrivata a Roma) ci fu un momento in cui, con l’appoggio del re francese ballerino, Cristina di Svezia stava quasi per diventare regina di Napoli, ma la faccenda non quagliò, non solo perché poi nel 1660 Louis XIV sposò Maria Teresa d’Austria (che a dispetto del nome era spagnola), assicurando ai francesi una tregua con la Spagna, ma anche a causa di un piccolo imprevisto quale l’esecuzione del marchese Gian Rinaldo Monaldeschi, stalliere di Cristina, ritenuto responsabile di un complotto contro di lei...
Tornata a Roma, si insediò dapprima a palazzo Rospigliosi, vicino alla residenza papale sul Quirinale, ma ben presto il papa le fece sapere che non aveva molto gradito l’uccisione di Monaldeschi, cosicché Cristina si trasferì temporaneamente nella Villa Farnesina, e poi definitivamente nell’attuale palazzo Corsini alla Lungara, dove per trent’anni, fino alla sua morte nel 1689, fiorì la corte di colei che era conosciuta come la “regina di Roma”.
Chi lo disse?
«Egli mi sembra che noi abbiamo oggi rinnovata l'Arcadia!»
Lo esclamò un gasatissimo Agostino Maria Taja, letterato e futuro membro dell’Accademia dell’Arcadia, dopo aver sentito alcuni suoi compagni recitare le loro poesie pastorali… ma anche meno, Agosti’, anche meno!
Alla morte di Cristina di Svezia, nel 1690 gli intellettuali e gli artisti che lei soleva radunare attorno a sé nella sua residenza romana decisero di continuare a riunirsi, fondando così l’Accademia dell’Arcadia, con l’intento di contrastare il “cattivo gusto” di Manierismo e Barocco, pensate un po’… praticamente la famiglia allargata di quel puzzone di Francesco Milizia comparso con tutto il suo enorme naso alla fine della newsletter numero zero.
Talmente erano contrari alle ampollosità del Barocco che quando, grazie a una sostanziosa donazione da parte di João V de Bragança, re di Portogallo, nel 1725 riuscirono finalmente a dotarsi di una sede propria anziché andare raminghi e a scrocco, ed essere periodicamente sfrattati da chiunque come avevano fatto fino a quel momento, costruirono il Bosco Parrasio, un giardino su tre livelli (collegati da due rampe gradonate), incluso un teatro ovale, una finta grotta, per culminare con una leccata di piedi al re del Portogallo un’edicola commemorativa per ringraziare il portafogli di João V de Bragança in cima a tutto il resto — un progetto invero molto sobrio, proprio l’espressione del ritorno alla sempliscità bucolica come la intendeva Virgilio, per niente una faccenda contorta e barocca, sì sì, come no…
Per non parlare poi del fatto che tra i membri dell’Accademia dell’Arcadia erano annoverati pure compositori come Arcangelo Corelli e Alessandro Scarlatti, i quali urlano “IO SO’ BAROCCO!” dalla prima all’ultima semibiscroma delle loro opere, a dimostrazione che in ogni epoca c’è sempre qualcuno che se pure partorisce un’idea, non ha veramente idea di cosa diamine stia facendo, come il cane del meme qui sotto…
«…si ‘stu scióre torna a maggio, pure a maggio io stóngo ccà!»
…per la precisione il 31 maggio, ultimo mercoledì del mese! Ciao!